Crisi di panico: una storia vera

Crisi di panico: una storia vera

Sono al lavoro, in una scuola superiore di primo grado della città in cui vivo.
All’improvviso sento un certo trambusto provenire da uno dei corridoi.
Mi precipito immediatamente per vedere cosa stia succedendo.
Seduta fuori da un’aula c’è una ragazzina che ha appena avuto un attacco di panico.
Accanto a lei, l’insegnante.
Cerca di aiutarla, con amorevole dedizione.
Ma questo, non sembra bastare…

Il panico della ragazzina è evidente…

e tutto il suo corpo rivela ciò che sta provando.
Lo sguardo vitreo e fisso, i muscoli del corpo completamente rigidi e contratti, la respirazione difficoltosa, quasi bloccata nella gola, l’incarnato estremamente pallido…
Sembra una statua di marmo, più che un essere umano.
Oltretutto, non riesce ad emettere parola e si limita a rispondere con movimenti impercettibili del capo.
Questo non fa che accentuare la tragica sensazione di immobilità che trasmette.
Mi sembra proprio di vedere quella che Fabrizio Alfani definisce “sensazione di terrore indiscriminato nel quale predomina la sintomatologia corporea” (ne avevo parlato anche in questo articolo).

Lei è atterrita ed io affranta nel vederla in preda al panico…

L’insegnante, invece, si sente impotente.
In più, è giustamente preoccupata per aver lasciato la classe scoperta (seppure per un validissimo motivo). Difatti, presto esordisce con un: “Giusi, potrebbe gentilmente restare con lei?”
Rispondo: “Certamente, professoressa. Torni pure in classe”.

Sono contenta, perché questo mi dà la possibilità di fare qualcosa per quella ragazzina.

Comincio col dirle:
Dada, lo so che cosa stai provando. Gli attacchi di panico sono molto spaventosi perché ti danno l’impressione di non potercela fare. So che ti senti morire. Ma non ti preoccupare: questo non accadrà. Ci sono io con te e ti aiuterò a stare meglio.”

Mi guarda con gli occhi sgranati, in un misto di incredulità e contentezza.
Un fugace guizzo di vitalità nei suoi occhi mi dice che si fida e che si sente accolta e capita.
Forse non si aspettava che qualcuno potesse davvero comprendere cosa stesse provando e la mia affermazione l’ha sorpresa non poco.

Le insegno come riprendere il controllo della respirazione per contrastare la crisi di panico

e faccio gli esercizi insieme a lei, per mostrarle praticamente come fare.
Dopo un po’ comincia a tornarle il colorito. Questo, mi suggerisce che siamo sulla buona strada.
Tuttavia, voglio capire fino a che punto la tecnica stia funzionando e se, oltre al respiro, stia facendo effetto anche su altre funzioni.
Noto che i muscoli della parte superiore del corpo si stanno gradualmente rilassando.
Tra me e me penso: “Forse ora è anche in grado di parlare”.
Voglio averne conferma e così le chiedo se è successo altre volte.
Mi risponde con un flebile “Sì”,
Da alcuni segnali del corpo capisco quanto si senta inerme all’idea che quegli attacchi possano arrivare del tutto inaspettatamente.

Così le consiglio di portare sempre con sé un sacchetto di carta

<<Sarà la tua arma e insieme il tuo scudo contro “il mostro”. Alle prime avvisaglie di panico, dovrai respirarci dentro, senza mai staccarlo dalla bocca. Vedrai che dopo un po’ starai subito meglio.>>
Mi accorgo che comincia a sentirsi rincuorata all’idea di poter contare su un “alleato”.
Fa come un respiro di sollievo e la sua postura cambia immediatamente.
Nel frattempo, la sua respirazione si è sufficientemente sbloccata.
Tuttavia, ho la sensazione che finché non si “sblocca” anche il suo cuore (in senso figurativo s’intende!) e finché non sarà in grado di riversare all’esterno la sua angoscia, parlandone, non ci sarà soluzione definitiva.
Quindi le suggerisco di chiedere aiuto ai genitori, in modo che cerchino uno specialista in grado di darle una mano.

Ma nel frattempo, cos’altro posso fare per aiutarla a superare quella crisi di panico?

L’idea mi balena in maniera repentina.
“Ti va se facciamo due passi lungo il corridoio?” – le chiedo.
La proposta aveva un duplice scopo:

  • riattivare la circolazione sanguigna in modo che i muscoli degli arti inferiori, ancora visibilmente contratti, possano “ammorbidirsi” un pochino;
  • farle qualche altra domanda, evitandole al contempo l’imbarazzo dato dal timore che i compagni di classe possano sentire le risposte.

Appena siamo sufficientemente lontane le chiedo se sta vivendo qualche situazione problematica, a casa o a scuola.
Cerca il mio sguardo e, guardandomi dritto negli occhi, mi risponde di sì.

Ciò mi fa ben sperare.
“Si sta lasciando andare” – penso – “Se riesce ad aprirmi il suo cuore e a raccontarmi che cosa l’affligge, forse il peso che porta si alleggerirà.”

Ma di lì a poco, quella speranza si sgretola in mille pezzi sotto i miei occhi…

Un’insegnante che passa di lì, avendo captato una parte della conversazione, rivolgendosi alla ragazzina esordisce con una frase veramente inopportuna:

“Saranno mica problemi seri, quelli che si vivono alla tua età! Da grande vedrai quali sono i veri problemi. Quelli che vivi ora sono tutti risolvibili!”

La fulmino con gli occhi. Temo che, a causa di quella sua uscita infelice, la ragazzina si chiuda nuovamente a riccio. E in effetti, la vedo irrigidirsi di nuovo.
Così, nel tentativo di mettere una pezza su quello strappo, rispondo all’insegnante. Però lo faccio senza smettere di guardare la ragazza, in modo da vedere come reagisce:
“Ci sono problemi per ogni età, sa? E son sempre grossi, per chi li ha!”

Purtroppo, il mio intervento non basta e la ragazzina si allontana quasi di corsa, farfugliando un laconico “Vado in bagno”.
La sua reazione non mi stupisce.
Quando qualcuno sminuisce i nostri sentimenti o banalizza i nostri stati d’animo, ci fa sentire incompreso e non accolto…

È un po’ come quando ci dicono quelle frasi di cui ho parlato in un altro articolo.
Così, mentre la guardo andar via, provo una stretta al cuore.

Temo che quella perturbazione emotiva ALTERI di nuovo la sua respirazione, innescando nuovamente il panico…

Così l’aspetto e, non appena uscita dal bagno, le domando se abbia voglia di fare un giochino.
Con mia somma contentezza, annuisce.
In realtà, sebbene camuffato da “giochino”, si tratta di un esercizio di coordinazione nel quale a determinate parole bisogna affiancare gesti specifici.
Per farvi capire, è un po’ come il Soco Bate Vira che propongono alcuni animatori.
Solo che in questo esercizio non c’è la musica e le parole sono diverse.

La particolarità di questi esercizi è che all’aumentare della velocità aumenta anche la probabilità di sbagliare. O meglio, di non riuscire a mantenere la coordinazione.
Questo, automaticamente, fa sì che s’inneschi una risata spontanea che, a sua volta, ripristina respirazione adeguata e benessere immediato.

Come previsto, la ragazza comincia a ridere a più non posso.
La sua risata la rende felice.
La sua felicità rende felice me…

E questo, ancora una volta, ci ricorda quanto il sor-riso possa influenzare umore e benessere.

O quanto ridere ci aiuti a combattere lo stress.


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